Distopia – Omar Suboh
Testo critico di Omar Suboh per la mostra “Distopia” di Valeria Masu, a cura di Alice Deledda.
La mostra è visitabile alla Galleria Siotto dal giovedì alla domenica dalle 18 alle 20 fino al 2 marzo.
–
DISTOPIA
Quando la fine del mondo può sembrare più vicina che mai, è sempre notte, altrimenti perché avremo bisogno della luce? Giriamo intorno alle fiamme come falene, fino a bruciarci le ali, e rinascere cornacchie, poiane, ghiandaie, berte maggiori, fenicotteri, assioli. Dai margini di un universo sconosciuto, perturbazioni infinitesimali si propagano in ogni angolo, e creano cunei, crepacci, increspature, deflagrazioni cosmiche, e in lontananza ci arriva il suono di qualcosa che ancora non è crollato definitivamente: la musica della catastrofe, della Grande Mutazione in atto. Masse di stelle, ipotesi di bagliore, onde gravitazionali che attraversano la Terra, neutroni si intrecciano, si scontrano, supernove collidono generando una molteplicità di infiniti mondi altri.
Quali pretese conoscitive possiamo ancora avanzare di fronte all’ineffabile?, l’invisibile è ovunque; il confine di ogni cosa, l’orizzonte degli eventi, è la linea oltre la quale non ci è dato più sapere che cosa si cela al di là: ciò che separa quello che sta dentro da quello che si trova al di fuori. Così anche il regno del sogno è un buco nero senza via d’uscita. La realtà è un’allucinazione collettiva, e anche la morte è soltanto una visione: un velo che ricopre la sfera immobile dell’eternità.
Una tempesta solare dissolve l’etere, «spegni pure, c’è il bagliore nucleare» che illumina la Distopia del futuro–presente – dell’epoca della perdita di senso, della paura lenta – in cui siamo immersi come il Minotauro dentro il labirinto: ombre che inseguono i loro stessi passi lasciati all’alba di una Nuova Era Oscura.
E se non fossimo davvero quello che crediamo di essere? E se il mondo che conosciamo venisse sottoposto a un nuovo assetto davanti ai nostri occhi stanchi, trafitti da raggi simbiotici, e tutto questo accadesse mentre stiamo fermi a guardare, oppure mentre stiamo seduti a parlare? Che cosa rimane dell’individuo di fronte al collasso ambientale e cognitivo, quale spazio vitale, e di azione, ci è ancora concesso?
La fotografia di Valeria Masu è la cronaca per immagini del dispositivo petrosessorazziale in atto, così come lo chiama Paul B. Preciado, a cui è necessario opporsi, l’intersezionalità come progetto di emancipazione postidentitario che presuppone una liberazione mentale dalle categorie dominanti, perché anche il paesaggio è espressione della transizione epistemica.
La grammatica della visione, il Nero Assoluto che avanza, mentre una nube immensa cola a picco sul fondo del cielo oscurandolo. La testimonianza su pellicola della trasparenza madreperlacea della Fine, attraverso il racconto delle miniere, delle orme sulle rocce, delle argentiere, degli olivastri millenari, delle spume petrolchimiche, della luna sul mare che abbaglia retrospettivamente il magnetismo universale che tutto collega: è la storia dell’«inesorabile azione dissolvente del tempo» – perché la fotografia è elegia del pensiero: un’arte crepuscolare, come nella suggestiva definizione di Susan Sontag –.
I paesaggi reinventati da Valeria Masu sono esempi di scrittura solare, come eliografie impresse sulle lastre della mente. Sono la narrazione metafisica della Grande Accelerazione, che corrisponde alla crescita inaudita di emissione di anidride carbonica su scala mondiale: il risultato è il surriscaldamento del pianeta, l’acidificazione degli oceani, la deriva dei continenti, le grandi eruzioni vulcaniche, l’erosione delle alture, l’avanzata o il ritiro dei mari: perché ci siamo sostituiti alla natura. Dal momento in cui abbiamo incominciato a coltivare i terreni, ad allevare il bestiame, a disboscare per allargare i pascoli. L’armonia cosmica che tutto avvolgeva nella sua perfezione estetica e morale, come una sezione aurea composta dalla somma della successione di due numeri precedenti – specchio della perfezione divina –, è stata scardinata in virtù delle nostre stesse azioni, e ora ci ritroviamo sottomessi agli elementi naturali, invasi da uno stormo di uccelli marini come nel celebre film di Hitchcock. E il ritorno alla natura è la pace a cui anelare.